Il Libano tra razzismo, povertà e colonialismo

Il Libano è il paese che ospita più rifugiati al mondo in rapporto alla propria popolazione, ma non ha affatto le risorse per farlo.  Cosa accade quando influenze straniere, razzismo e povertà gravano su chi fugge dalla guerra?

 

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Campo profughi siriano a Sednayel, Valle della Bekaa, Libano. Foto di Jacopo Intini

“Siamo razzisti nella nostra identità libanese” ha twittato lo scorso 8 ottobre il Ministro degli Affari Esteri libanese Gebran Bassil, pretendendo di rappresentare in tal modo i circa 4 milioni di libanesi che vivono nel paese e quelli sparsi in giro per il mondo, tra gli 8 e i 14 milioni di persone. Ma il razzismo ha veramente a che fare con la propria identità? E soprattutto, si può veramente delineare un’identità nazionale in una terra abitata da diciotto diversi gruppi confessionali che per quindici anni (1975-1990) hanno dato vita a una delle guerre civili più cruente del ventesimo secolo?A seguito delle critiche ricevute per il suo tweet, il ministro Bassil ha tentato maldestramente di correggere il tiro, dichiarando cinque giorni dopo che il suo partito rappresenta l’antitesi del razzismo di Daesh (o ISIS) e di Israele, essendo composto semplicemente da “patrioti che impediranno l’insediamento dei rifugiati siriani in Libano”.

Lo ha fatto di fronte a una folla riunita per commemorare il bombardamento del palazzo presidenziale di Baabda, avvenuto il 13 ottobre 1990 ad opera dell’aviazione siriana. In quel palazzo si era rifugiato il generale dell’esercito libanese di allora e primo ministro Michel Aoun. Dopo essere scampato all’attacco e aver trascorso quattordici anni in esilio in Francia, nel 2005Aounètornato in Libano per fondare il Free Patriotic Movement oggi presieduto da Bassil. Un anno fa l’ex generale è tornato ad abitare nel palazzo di Baabda in qualità di Presidente della Repubblica.

Che in Libano ci sia un problema di razzismo è evidente a chiunque vi trascorra qualche giorno o ne studi semplicemente la storia. L’elenco dei gruppi sociali e nazionali discriminati, emarginati e oppressi dallo stato libanese e da molti dei suoi cittadini è lungo. Inizia cronologicamente con le centinaia di migliaia di palestinesi fuggiti in Libano nel 1948, o nati qui in seguito,a causa della pulizia etnica della Palestina portata avanti dalle forze sioniste. Oggi i palestinesi in Libano vivono quasi tutti in campi profughi, che negli anni si sono trasformati in baraccopoli sovraffollate dove mancano i servizi più essenziali. Lo stato libanese nega loro diritti fondamentali, come quello di cittadinanza, di possedere una casa, di accedere alla scuola pubblica e di svolgere trentasei professioni. Il diritto più agognato dai palestinesi e riconosciuto dall’ONU sin dal 1948, invece, viene loro negato da Israele: quello al ritorno in Palestina.

L’elenco dei discriminati continua con i duecentomila migrant domestic workers, prevalentemente donne cingalesi, bangladesi, nepalesi, filippine ed etiopi che lavorano nelle case dei libanesi benestanti, molti dei quali le rinchiudono in stanze asfittiche, impedendo loro di uscire di casa –se non per fare la spesa– e facendole lavorare tra le sedici e le venti ore al giorno. Grazie al Kafala system, una legislazione schiavista presente anche in Giordania, Iraq, Arabia Saudita e altri stati del Golfo, il datore di lavoro libanese – ovvero lo “sponsor” senza il quale la persona migrante non sarebbe potuta entrare nel paese – può sostanzialmente negare a queste donne le ferie e riconoscergli un salario che raramente supera i duecento dollari al mese. Il meccanismo di dominio incentivato da questo sistema porta spesso il datore di lavoro a sottrarre il passaporto alla lavoratrice[1], a minacciarla, a picchiarla o a violentarla all’interno della casa in cui è prigioniera.Questi abusi spingono una donna al mese a preferire il suicidio. Altre donne, invece, riescono a farsi forza e a scendere in strada per chiedere il riconoscimento dei propri diritti, come accade ogni Primo Maggio da 8 anni a Beirut.

A questo elenco non esaustivo di gruppi oppressi vanno aggiunte le persone in fuga dalla guerra in Siria, tra 1,1 e 1,5 milioni[2],tra le quali ve ne sono almeno trentamila di origine palestinese[3] che hanno dovuto subire i traumi derivanti da una vita ai margini dell’umanità per ben due volte: prima nei campi profughi siriani e poi in quelli libanesi.Il 74% dei siriani e il 40%  dei palestinesi in fuga dalla Siria risiedono in Libano illegalmente. La mancanza di documenti di residenza validi spinge i profughi a limitare i propri spostamenti per paura di essere arrestati, impedendo a molti di lavorare, di ricevere cure mediche e di accompagnare i figli a scuola. Molte donne e bambini, dato il minor rischio di essere identificati dall’esercito o dalla polizia rispetto agli uomini, provvedono al sostentamento della propria famiglia, venendo spesso sfruttati dal datore di lavoro e subendo violenze e abusi sessuali che non riportano alle autorità per paura, appunto, di venire arrestati.

Oltre agli impedimenti legali che rendono loro impossibile condurre una vita dignitosa, i siriani sono continuamente attaccati da molti libanesi, sia civili che militari. L‘intolleranza assume, in questi casi, varie forme, come ad esempio proteste organizzate fuori le scuole che accolgono i bambini siriani sfuggiti alla guerra. A volte purtroppo, queste proteste hanno successo e i bambini sono costretti a interrompere il loro percorso scolastico. E’ quanto accaduto, solo per citare uno degli innumerevoli esempi, lo scorso ottobre nella cittadina di Bsharre, roccaforte cristiano maronita del nord che ha dato i natali a Samir Geagea, presidente esecutivo delle Forze Libanesi ed ex guerrigliero falangista. Con un’ordinanza il sindaco di Bsharre ha eliminato il turno scolastico pomeridiano riservato ai bambini siriani, che saranno quindi costretti a perdere un ulteriore anno di studi dopo quelli saltati a causa della guerra. Nello stesso mese a Hadath, un piccolo centro tra Beirut e Baabda, il sindaco ha espulso quaranta famiglie siriane dalla sua municipalità, costringendole a rifugiarsi più a sud, nella regione dello Chouf.

Non mancano poi gli abusi e le violenze ai danni dei siriani da parte della polizia e dell’esercito. Il 30 giugno scorso l’esercito libanese ha effettuato dei raid nei campi informali di Arsal, nel nord-est del paese, e arrestato 356 persone, 257 delle quali per mancanza del permesso di soggiorno. Secondo Human Rights Watch, fra le persone detenute ci sarebbero stati anche dei bambini. Cinque uomini siriani arrestati quel giorno sono invece morti mentre erano sotto la custodia dell’esercito, dopo essere stati tutti torturati.

Sempre più frequenti sono infine le aggressioni fisiche in strada a danno dei siriani da parte di uomini libanesi, spesso per i motivi più futili. Ma a cosa è realmente dovuta questa ostilità nei confronti di persone in fuga da una guerra che ha provocato già 465.000 morti[4]?

Già nel 2014, il 91 per cento delle comunità ospitanti libanesi percepivano la presenza dei siriani come una minaccia alla propria sicurezza[5]. Sarà stato anche sulla base di questi dati, probabilmente, che nel gennaio del 2015 il governo libanese ha deciso di avviare una politica di “riduzione del numero” dei rifugiati. Questa riforma è consistita nel rendere illegali più del settanta per cento dei Siriani residenti in Libano revocando loro i permessi di soggiorno. Permessi che invece, come evidenziato dalla ONG libanese Legal Agenda, sono stati concessi a quelle categorie di rifugiati dalle quali l’economia libanese può trarre maggior profitto: proprietari di capitali e lavoratori del settore agricolo ed edile.

Al di là dei chiari episodi di razzismo, l’ostilità di una buona parte della popolazione libanese nei confronti dei siriani sembra basarsi principalmente su ragioni economiche. In un paese in cui il sessanta per cento della popolazione dichiara di non aver beneficiato di alcun servizio pubblico negli ultimi tre mesi[6], l’arrivo di più di un milione di persone è inevitabilmente andato a gravare sulla già carente offerta di questi servizi. Secondo uno studio[7] condotto nel 2015, sulle ragioni delle potenziali divisioni,  libanesi e siriani si trovano perfettamente d’accordo: al primo posto c’è la competizione per un posto di lavoro[8], al secondo quella per risorse e servizi insufficienti[9].

Su tutti il servizio maggiormente carente è quello della raccolta e smaltimento dei rifiuti, un’inadempienza che ha generato una crisi ambientale e sanitaria: l’assenza quasi assoluta di strutture adibite al trattamento di rifiuti solidi ha provocatola comparsa di circa novecento discariche a cielo aperto[10] in un paese, il Libano, che è più piccolo dell’Abruzzo.Curiosamente, i problemi storici tra le due comunità – su tutti l’occupazione siriana del Libano durata dal 1976 al 2005 – vengono indicati come l’ultima ragione possibile alla base delle loro divisioni: solo l’11% dei libanesi e il 10 % dei siriani li ritiene tali.

Per quanto la xenofobia che ne scaturisce non sia in alcun modo giustificabile e vada combattuta con ogni mezzo,questa analisi delinea il più classico dei conflitti tra poveri per risorse scarse, piuttosto che un odio razziale che si è consolidato negli anni.

“Siamo razzisti nella nostra identità libanese”, dice il ministro Bassil. A smentire questa sua affermazione, oltre ai dati appena citati,ci sono le manifestazioni di solidarietà di alcuni libanesi nei confronti dei rifugiati siriani. Nel luglio dello scorso anno almeno duecento persone sono scese in strada a Beirut per protestare contro il razzismo dilagante. Secondo un manifestante “[Chiunque nella classe dirigente libanese] usa i siriani come capri espiatori per i propri fini politici, per consolidare il proprio potere e distrarre le persone dalla propria corruzione”. Gli organizzatori della marcia dichiaravano di essere lì“per ricordare a noi stessi e a tutti quanti che non avevamo elettricità, acqua, telecomunicazioni e strade già prima della crisi dei rifugiati siriani”.Così come accade in Europa, negli Stati Uniti e in molti altri paesi, sembra che anche in Libano qualcuno raccolga voti sulla pelle dei migranti. Una strategia particolarmente subdola, se consideriamo che il settanta percento dei siriani in Libano vive al di sotto della soglia di povertà e il quattordici per cento è affetto da disabilità fisiche o psichiche.

Ma al di là dei comportamenti xenofobi particolarmente diffusi fra i libanesi e alle politiche discriminatorie del loro governo, a chi altro sono ascrivibili le responsabilità di questa crisi umanitaria – e di umanità– che osserviamo in Libano? Per rispondere con onestà a questa domanda è indispensabile fare un salto indietro di un secolo e analizzare il processo che portò alla fondazione dello stato libanese.

Tutti gli attori e le variabili entrati in gioco negli ultimi cento anni in Medio Oriente non hanno rappresentato altro che una reazione alla scelta scellerata di due potenze europee di sedersi a tavolino, matita rossa e matita blu alla mano, per spartirsi su una carta geografica quest’area del mondo[11]. Nel 1916, in seguito al crollo dell’Impero ottomano, Gran Bretagna e Francia si divisero il Medio Oriente attraverso gli accordi segreti di Sykes-Picot, dal nome dei rispettivi diplomatici che raggiunsero l’intesa: Iraq, Giordania e Palestina finirono sotto l’influenza britannica, Siria e Libano sotto quella francese. Le ripercussioni di questo accordo sul Libano moderno sono descritte al meglio dal giornalista inglese Robert Fisk, in un passaggio che vale la pena riportare per intero del suo libro“Il martirio di una nazione. Il Libano in guerra”:

“I francesi capirono appieno che il sentimento nazionalista siriano si opponeva al loro dominio. Questo in pratica significava che i sunniti erano i loro principali antagonisti, e procedettero quindi a capitalizzare sulla buona volontà dei cristiani, gli amici di più vecchia data, creando un nuovo stato che toglieva Tiro, Sidone, Tripoli, la valle della Beqaa e la stessa Beirut alla Siria per annetterli al sanjak (il distretto amministrativo) ottomano del Monte Libano, vera e propria spina dorsale della cristianità maronita. La Siria fu separata dai suoi porti più importanti e Damasco (centro del nazionalismo arabo musulmano che si opponeva al dominio francese) fu indebolita a scapito di Beirut e del nuovo regime retto dai cristiani. Lo «stato del Grande Libano», proclamato dal generale francese Gouraud il 31 agosto 1920, era così un’entità del tutto artificiale creata dai francesi. Oltre vent’anni più tardi le sue frontiere sarebbero diventate i confini dello stato indipendente del Libano. E fu in difesa della presunta «sovranità» di questa particolare nazione (un prodotto del Quai d’Orsay più che l’espressione di una qualsivoglia aspirazione nazionalista araba) che infinite migliaia di persone sarebbero morte più di mezzo secolo più tardi”(p. 90).

La guerra civile libanese, quella siriana e l’occupazione israeliana della Palestina sono fra gli esempi più significativi della continua sofferenza causata alle popolazioni del Medio Oriente dalle frontiere disegnate un secolo fa dalle potenze europee, frutto di un’attitudine colonialista di cui ancor oggi fatichiamo a liberarci.

Se è impossibile tornare indietro e cancellare quegli accordi, di certo non lo è porre fine alla sofferenza dei rifugiati siriani e palestinesi in Libano. Basterebbe utilizzare due strumenti in mano ai governi europei e a quello statunitense: la diplomazia, per porre fine all’occupazione israeliana della Palestina, obbligando contemporaneamente Israele a riconoscere il diritto al ritorno dei rifugiati palestinesi già sancito dall’ONU nel 1948; e l’apertura delle frontiere alle persone migranti, in stragrande maggioranza siriane, costrette a vivere in condizioni disumane nei campi profughi libanesi, offrendo loro rifugio, protezione, assistenza medica e la possibilità di condurre un’esistenza libera da un destino di violenza al quale proprio Europa e Stati Uniti le hanno condannate nell’ultimo secolo. I governi degli Stati Uniti e dell’Unione europea, però, sembrano continuare a preferire la rotta tracciata nella prima metà del secolo scorso.

Se gli USA continuano a finanziare l’esercito israeliano con 3,8 miliardi di dollari l’anno, come deciso dall’amministrazione Obama, e ora a riconoscere ufficialmente Gerusalemme occupata come capitale di Israele, l’Unione europea continua ad esternalizzare le proprie frontiere, costringendo le persone migranti ad affogare nel Mediterraneo o all’oblio delle prigioni libiche o dei campi profughi mediorientali. Un esempio di questa esternalizzazione, come sempre mascherata da aiuto umanitario, sono le nuove priorità di partenariato firmate il 15 novembre del 2016 dal Libano con l’Unione europea, che garantiscono al primo un flusso minimo di 480 milioni di euro in due anni in cambio, tra le altre cose, di una sua “maggiore capacità di gestione dei flussi migratori” e di un “rafforzamento della capacità di gestire le frontiere”. Questo accordo ha fatto seguito alla richiesta del governo libanese ai donatori internazionali, esplicitata alla conferenza di Londra del febbraio dello stesso anno, di sette miliardi di dollari in cinque anni per far fronte alla crisi umanitaria. Di questi, 1,75 miliardi sono la stima dei bisogni del solo settore dell’educazione. D’altronde, come ha scritto il governo libanese nella dichiarazione d’intenti conclusiva della conferenza in riferimento ai bambini e ai ragazzi siriani, “più speranza creiamo per loro qui, meno è probabile che loro o i loro genitori tentino un viaggio pericoloso verso l’Europa”.

 Daniele Bonifazi 

 

[1] Secondo uno studio dell’associazione KAFA (“Servant, Daughter, or Employee? A Pilot Study on the Attitudes of Lebanese Employers towards Migrant Domestic Workers”, 2010) questo accade nell’88% dei casi.

[2] 1,1 milioni sono i rifugiati siriani registrati all’UNHCR, l’agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati, mentre 1,5 milioni è la stima del governo libanese

[3] Lebanon Crisis Response Plan 2017-2020, UNDP

[4] Dati dell’Osservatorio Siriano per i Diritti Umani aggiornati al 17 marzo 2017.

[5] International Alert (2014), “Security Threat Perception in Lebanon”

[6]UNDP, Social Stability Working Group, 13 dicembre 2017, Beirut

[7] REACH (2015)

[8]Ragione indicata dal 50% delle donne e 38% degli uomini libanesi e dal 34% delle donne e 28% degli uomini siriani

[9] Causa di divisione indicata dal 26% dei libanesi e dal 14% delle donne e 17% degli uomini siriani

[10] Ministero dell’Ambiente libanese, UNDP (2016), “Masterplan for the Rehabilitation of Dumpsites Study” (non pubblicato)

[11] La carta originale è tuttora esposta al British Museum di Londra.